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Geological Tours

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Oman, racconti di viaggio (parte prima)
 

autore:    Giovanni Dalla Valle [03-05-2013]

Ecco il racconto di Lucia Potenza, che ha viaggiato con noi in Oman lo scorso febbraio. Leggendo queste righe riemergono senzazioni, profumi, colori che solo quella terra può regale... grazie Lucia!!

La compagnia

Giovanni è il nostro capo-gita, un gigante buono ed instancabile dall’iniziativa inesauribile. Lui propone, racconta e illustra, illuminato da un entusiasmo comune a pochi. Il suo eloquio è così trascinante da riuscire a convincere anche i più riottosi della bontà delle alternative suggerite. Quando ha l’opportunità, cucina con passione e memorabili risultati e si intristisce se qualcuno mostra segni di cedimento di fronte a due etti di pasta ben condita. Il suo sogno nel cassetto sarebbe quello di radere al suolo tutte le città ed estirpare quell’inutile vegetazione che seppellisce le rocce e ne degrada la superficie, celandone troppo spesso la nuda bellezza.

Stefano, il suo secondo, è l’eterno ragazzo. Una folta chioma di ricci ribelli scolpiti dal vento e dalla polvere incornicia due occhi chiari che guardano il mondo con fare scanzonato. Il fisico asciutto e ben allenato non lo rende soggetto alla legge di gravità e di fronte ad una parete di roccia verticale e liscia levita fino a raggiungerne la sommità. Pur di poche parole, non nasconde mai ciò che pensa e condivide con Giovanni un cameratismo complice che trasforma il nostro viaggio in un’inattesa e stupefacente gita tra amici.

Silvana è ovunque. Basta aprire la portiera dell'automobile e darle l'agognata libertà che lei è già sparita, martello alla mano -il che le ha fatto subito vincere l’appellativo di “Demolition Silvana”-, un occhio all'orizzonte e uno sul terreno, per identificare, classificare e raccogliere ogni forma minerale, animale o vegetale che ritenga degna di attenzione. I suoi occhi nocciola sono dolci e ridenti, il suo minuscolo bagaglio dal quale appare ogni genere di meraviglia -dal kit antivipera alla maschera con boccaglio e chissà cos'altro- surclassa senza difficoltà la borsa di Mary Poppins. Con una vita da romanzo alle spalle, l'energia esplosiva di un infante e un entusiasmo per la vita più consono ad una teenager che ad una pensionata, ci lascia tutti indietro di parecchie misure e costituisce un fulgido esempio per quella parte dei giovani moderni che hanno l’aria perennemente annoiata.

Giorgio marca le cime; una qualunque vetta esercita su di lui un fascino irresistibile. Non importa la natura della medesima, basta che sia più alta del posto in cui ci si trova. Lo si perde d'occhio un istante e lui non c'è più, impegnato in una lesta arrampicata su per una china magari anche ripida e franosa. Da lassù, lui dice, si gode di una visione d'insieme irrinunciabile, che riprende con passione da ogni angolatura, “fotofilo Giorgio”. Per fortuna possiede un'ampia collezione di magliette rosse, che permettono agli altri di identificarlo da lontano e di immortalarlo quando, giunto alla meta, apre le braccia e diventa una croce di vetta vivente.

Marco sa. Non importa la materia, l'ambito e il contesto. Per qualunque argomento ha un'opinione precisa e definitiva. Se poi si tratta di qualcosa di tecnico i suoi occhi brillano e le mani lavorano abili e veloci. Sa manovrare con perizia le piastre da sabbia per estrarre un fuoristrada inghiottito dal deserto, conosce l'esatta posizione dell'aggancio delle corde di traino, mostra un'esperienza millenaria nella sostituzione di una gomma squarciata con tempistiche da formula uno, anche quando tutti gli arnesi necessari sono abilmente celati in anfratti riposti. In una notte di creatività ha dato vita ad un incredibile sistema per fare il backup delle schede delle macchine fotografiche tramite un semplice cellulare unito ad altri aggeggi misteriosi come se fossero pezzi di lego, totem elettronico irrinunciabile come oggetto ornamentale in ogni tenda che si rispetti.

Lucia aspetta i biscotti. Lei sa che ci sono, si ricorda dell’enorme scatola delle meraviglie che le ha tenuto compagnia durante tutto il viaggio attraverso l’Islanda e che lei ha accuratamente vuotato e sa che Giovanni non può averla tradita. Ogni volta che è ora di mangiare lei attende trepidante il momento in cui appariranno loro, sempre diversi, intere confezioni che lei ha il privilegio di poter aprire e saccheggiare a piacimento. Rinfrancata dalla costante presenza di tanta dolcezza contempla con occhi colmi di gratitudine l’incantevole perfezione del deserto, corre giù per le dune sollevando alte onde di sabbia e pensa che laggiù si fermerebbe volentieri per sempre.

Ludovico e Adriana ci nascondono qualcosa. Non ce ne accorgiamo subito, ma giorno dopo giorno la cosa diventa sempre più evidente. Di sera si ritirano presto, lui finge di tossire, noi ci preoccupiamo per la sua salute. E invece è tutta una finta. Se ne accorge Giovanni, che inizia ad ipotizzare la presenza di prosecco nella loro tenda -che empietà in un paese arabo!-, una bottiglia per sera, da stappare durante un accesso di finta tosse. Loro negano con convinzione, fino a smascherarsi sul volo di ritorno, con un sincero sorriso di soddisfazione. Certo che spacciare per prosecco la bottiglietta di vino dell’aereo…!

Adele ha splendidi capelli lunghi e occhi grandi che assorbono curiosi il mondo che le passa accanto. Porta sempre con sé la macchina fotografica all’altezza della spalla, tenendo il braccio ripiegato, mentre il vento le accarezza le chiome fluenti. Immobile sulla sommità della duna più vicina osserva commossa tanta magnificenza, fondendosi col paesaggio. Il suo sorriso dolce irradia serenità e la sua vera specialità è quella di tracciare strade nel deserto, trascinando nella sabbia la valigia e lasciando così un segno indelebile del suo passaggio.


Mari del sud

Una spiaggia bianca, lunga e semideserta, lambita da un mare intensamente azzurro, una mezzaluna perfetta che accoglie l’impeto dell’Oceano Indiano….non esiste migliore incarnazione dei sogni dei viaggiatori stanchi, di chi è sveglio da più di ventiquattro ore e viene da un inverno interminabile.
L’abbiamo sognata per tutta la giornata, per quello strano giorno che ne è durato due, ed ora eccoci finalmente a calpestare la sabbia chiara e fresca coi piedi che avevano dimenticato da mesi quella sensazione meravigliosa.
La compagnia si disperde, chi per catturare le immagini migliori della laguna, chi per arrampicarsi sul promontorio che chiude la baia a caccia di tesori naturali, chi per addormentarsi non appena riesce infine a mettersi in posizione orizzontale, baciato dal sole tiepido ormai pericolosamente vicino all’orizzonte.
Ma prima o poi tutti o quasi cedono alle dolci lusinghe dell’acqua, qualcuno solo per lasciarsi accarezzare appena dai flutti, altri invece per abbandonarsi all’impagabile sensazione del galleggiamento.
L’oceano è spazzato da onde lunghissime, che coccolano invece di squassare.
Basta avere l’ardire di oltrepassare quel punto magico in cui si infrangono in ricche spume e si è salvi, riparati dai rischi della risacca; ci si sente come paperette che navigano beate senza agitarsi troppo, sospese tra il cielo e la lontana sabbia dei fondali profondi.
Un bagno in un mare caldo a febbraio è la gioia di sguazzare senza pensieri, la sorpresa di essere sopraffatti da un muro d’acqua quando, distratti, si sono voltate le spalle al mare aperto e si è stati colti di sorpresa da un cavallone enorme; è l’allarme che si legge negli occhi delle persone che ci tengono compagnia che invece quell’onda gigante la vedono e mettono in dubbio, anche solo per un attimo, le nostre doti di nuotatori provetti.
Il bagno in compagnia è il piacere di conoscere i nuovi compagni d’avventura con l’entusiasmo proprio dei primi incontri ed è anche la gioia di ritrovare persone conosciute tempo fa, rendendosi conto con sorpresa che in fondo sembra passato solo qualche giorno e non quattro lunghi anni.
Un piccolo pensiero distratto va anche a chi abbiamo lasciato in patria; le previsioni del tempo per il nord Italia annunciavano, con una gioia sinistra, l’avvento di una raffica di perturbazioni nevose.
Con un sorriso soddisfatto risaliamo lentamente sulla riva, ad asciugarci un po’ chiacchierando tutti insieme: per una volta, tutta quella neve e le difficoltà ad essa connesse non ci riguardano affatto.


Salalah e Muscat

Salalah ci accoglie regalandoci una giornata ventosa e soleggiata, meravigliosamente estiva, un nettare per chi, come noi, proviene dalle tundre gelate del nord. Le sue case sono tutte piccole e color crema, molto simili tra di loro, e, dove è stato lasciato spazio alla natura, fanno bella mostra di sé campi di palme, di canna da zucchero e di banani. Piccoli chioschetti sorgono al confine tra la terra e la strada e vendono prodotti agricoli ai passanti, un vero e proprio mercato a chilometro zero. Semplici ed essenziali, indulgono all’estetica solo in certi piccoli dettagli, come il bancone rivestito di tronchi di banano o il tetto coperto di frasche. Ma sono dettagli che passano in secondo piano, sorpassati dallo spettacolo della frutta fresca appesa ovunque, turgida ed invitante: intere cataste di noci di cocco, enormi caschi di banane, fascine di canna da zucchero, che gli indiani venditori ci offrono con un sorriso. Il succo di cocco è fresco e ritemprante, la polpa saporita, le banane dolcissime, un aperitivo niente male e che non teme confronti con quello che si può avere in un qualsiasi locale alla moda milanese.
Salalah ha una spiaggia sconfinata e candida, sulla quale si infrange un oceano rabbioso e roboante. Nel punto in cui la sabbia diventa terreno un po’ più solido sorge il nostro albergo, una piccola costruzione in linea con lo stile locale, le cui stanze hanno finestre così ampie da poter credere di dormire direttamente sulla rena. Nella dolce ora del tramonto osserviamo l’andirivieni sul bagnasciuga, arroccati comodamente nella nostra camera con vista. E’ giovedì sera, il sabato del villaggio per le usanze locali. Donne completamente velate in nero fanno da contrappunto a ragazzini in eleganti tenute da calcio. Una bicicletta dimenticata nel bel mezzo della spiaggia riluce nel bagliore infuocato dell’ultimo raggio di sole.
Il centro della città è gremito di gente. Gli omaniti che passeggiano, soli o in gruppetti, hanno una figura elegante e regale. Indossano tutti una tunica bianca lunga fino ai piedi che si chiude intorno al collo con un vezzo, un insieme di frange che solitamente vengono intinte nel profumo. La cosa che non ci si spiega è il candore di quell’abito che conferisce loro un aspetto tanto nobile, così intonso e apprettato com’è, anche quando sono a tavola e mangiano con le mani. E’ un fenomeno che ha qualcosa di soprannaturale. In testa portano alternativamente un cappello tipico, bianco con fini decorazioni colorate, o una sorta di turbante. Ci sarà anche una regola per questo avvicendamento ma non è abbastanza evidente ai nostri occhi.
Possiamo cenare all’aperto -il clima lo permette-, evento che celebriamo con la gratitudine di chi solo ventiquattr’ore prima indossava la giaccavento imbottita. Alcuni gazebo a lato della via danno riparo a parecchi tavoli di plastica bianca, ai quali sono seduti uomini a perdita d’occhio.
Donne, nessuna.
Lì si mangiano spiedini, humus, insalate miste e pane arabo appena sfornato. I locali non hanno bisogno di posate, ma si servono dal piatto direttamente con le mani; noi invece veniamo trattati come ospiti di riguardo. Prima di essere apparecchiati con forchette e coltelli i nostri tavoli vengono accuratamente lavati da uno straccio col quale fino a qualche minuto prima avevano lavato i pavimenti -a giudicare dall’aspetto che ha- e infine vengono coperti da una tovaglia di plastica. Un uomo grasso ci si avvicina con un fascio enorme di spiedini, che porta in mano come se fossero un mazzo di fiori ed inizia a distribuire. Il panettiere ci rifornisce in continuo di pani roventi ed elastici, che produce ad una velocità inverosimile in un piccolo tugurio scuro. Sul banco di lavoro ha piccole palle di materia prima che affronta con veemenza schiaffeggiandole, maltrattandole, lanciandole per aria e ottenendo in meno di un minuto un disco quasi trasparente tanto è sottile e sghembo. Con un gesto rapidissimo le getta in una specie di pozzo dalle pareti arroventate appiccicandolo alle medesime e dopo un istante recupera con destrezza il pezzo di pane, pronto per essere consumato. Il tavolo si copre in un istante di pietanze succulente e niente viene mai portato via. Il conto verrà fatto in base ai piatti di portata vuoti e al numero di bastoncini spolpati presenti.
Accanto al ristorante c’è l’ingresso del suk, piccolo e composto. Lo attraversiamo distrattamente, tra distese d’incenso ed abiti variopinti. I pavimenti sono puliti e nessuno ci forza a comprare alcunché. Garbatamente i venditori ci invitano ad entrare nel loro negozietto e di fronte al nostro diniego ci salutano sorridendo.
Dovevamo andare fino in Oman per sentirci in Svizzera!

Muscat è la capitale dell’Oman e possiede un ingresso a dir poco trionfale, un viale a quattro corsie per senso di marcia che corre per chilometri e chilometri verso il mare a partire da una rotonda maestosa e luccicante. La strada è fiancheggiata da prati all’inglese che sono a tratti coperti da veri e propri tappeti di fiori curatissimi, mirabile esempio di come l’uomo possa rendere ubertoso un territorio potenzialmente desertico. Le due carreggiate sono separate da un ampio marciapiede dal quale spuntano elaborati lampioni di metallo scuro con dettagli dorati, apparentemente lustrati con regolarità. La sensazione di magnificenza, di ordine e di pulizia non viene meno neanche quando ci si addentra nel cuore della metropoli. Ovunque ci sono uomini impegnati a spazzare i marciapiedi, così lindi da potercisi sedere senza troppi danni anche indossando un paio di pantaloni bianchi. Neppure una carta di caramella può sopravvivere a tanto zelo.
A Muscat risiede il sultano Qabus bin Said e il suo palazzo è all’altezza della sua fama e delle fantasticherie che nascono spontanee nell’immaginario comune quando si pensa ad un personaggio del genere. La raffinata facciata gialla e azzurra è difesa da due elaborati cancelli separati da un viale fioritissimo e da una coppia di cannoni che dicono siano d’oro. L’illuminazione fiabesca mette in risalto ogni dettaglio, dando l’impressione a chi lo guarda di esser caduto direttamente in una delle favole da “Mille e una notte”.
Il sultano è monarca assoluto dal 1970 e pare sia amatissimo da tutti i suoi sudditi. Egli intraprende regolarmente dei viaggi attraverso il suo reame, durante i quali ogni cittadino con una richiesta o una protesta può appellarglisi direttamente. Lui prende nota scrupolosamente e fa del suo meglio per venire incontro a tutti. Se scopre che qualcuno vive in un tugurio lo rade al suolo e costruisce invece una casa nuova di zecca, motivo per cui in Oman non ci sono rovine di nessun genere.
I risultati del suo governare equilibrato sono sotto gli occhi di tutti in termini di un buon ordine pubblico (l’Oman è un paese estremamente sicuro), di una discreta economia (dovuta alla sua produzione di petrolio) e di una società relativamente permissiva, nella quale le donne possono guidare le automobili, vestirsi all’occidentale e sono addirittura la maggioranza degli studenti universitari. Da quando il sultano è salito al trono l'Oman ha intrecciato relazioni internazionali, liberalizzato i giornali, creato università, costruito autostrade, aperto alberghi e centri commerciali. L’assistenza sanitaria è gratuita e così anche l’istruzione, obbligatoria per tutti fino all’età universitaria. I prezzi del carburante sono ridicoli e nessuno paga le tasse. Uno straniero però non può comprare immobili, ma solo prenderli in affitto.
Mutrah è la zona commerciale di Muscat. Arriviamo sul suo lungomare all’imbrunire di un giorno di festa; la vita notturna si sta accendendo brulicante. Lunghe code di autovetture strombazzano allegramente e una moltitudine di persone cammina rilassata nell’aria fresca della sera. L’illuminazione dei pregiati palazzi che si affacciano sul porto fa ringraziare in cuor mio la scelta di essere arrivati in quel posto con le tenebre. Luci di tutti i colori che variano senza sosta vengono proiettate su quelle facciate candide e ricche di dettagli -un tripudio di colonnine, snelle balconate e rientri così pieni di dettagli da sembrare ricamati- passando dal giallo al rosso all’azzurro al rosa e al bianco in un continuum che ammalia ed impedisce di distogliere lo sguardo. Da un qualche punto lontano partono dei raggi verdi intensi, che spazzano il cielo fino ad appoggiarsi sul meraviglioso yacht del sultano, sulle case, sulla folla rilassata, aumentando ulteriormente la suggestione del luogo.
Tra un palazzo e l’altro si aprono gli ingressi del suk, una versione in formato magnum di quello di Salalah. Si ha una notevole sensazione di pace quando si passeggia nel tunnel di negozietti. Non è il termitaio lurido dei suk Africani, non si è oppressi dalle insistenze soffocanti dei venditori ai quali in altri luoghi si cede per sfinimento. Tutto è pulito, curato e luminoso. E se si ruba una fotografia di un volto speciale si viene ricambiati da un inatteso ringraziamento sorridente.
La merce che viene venduta è una manna per qualsiasi gazza ladra. Coloratissimi abiti per la danza del ventre incrostati di lustrini si completano con cuffiette di maglia luccicante dai pendagli tintinnanti e monili di ogni foggia e dimensione pendono dai soffitti come una cortina di pietre preziose. Ovunque brillano forzieri di tutte le dimensioni, ricoperti di decorazioni in argento e gemme, portagioie che tanto somigliano a tesori dei pirati. Per non parlare dei porta-profumi, tanto simili alla carrozza che ha condotto Cenerentola al ballo.
Resistere all’irrefrenabile impulso di comprare ciascun oggetto -pur con la consapevolezza della totale inutilità dello stesso - è un’impresa sovrumana.
Mi accomiato dal luogo con una sensazione di incompiuto.
Ci tornerò, ma questa volta con una valigia grossa e completamente vuota.


Dall’oceano al deserto

Lasciarsi alle spalle Salalah -pur correndo lungo la riva- significa abbandonare la zona abitata e ubertosa per trovarsi da un momento all’altro su un terreno spoglio e brullo, che ugualmente offre spunti interessanti. Uno di questi è il wadi Darbat, poco ad est della città, non lontano dalla costa. E’ facile individuarlo da lontano per quella macchia verde smeraldo -un miracoloso bananeto a mezza altezza- che spicca nel colore indistinto della roccia coperta di arbusti rinsecchiti. Gli alberi frondosi dominano la piana sottostante dal ciglio di una falesia da cui precipita una cascata che noi vediamo in secca, ma che in altri momenti dell’anno promette di essere davvero scenografica.
Nella stagione dei monsoni quel luogo è meta di innumerevoli torme di gitanti che vanno a godere il fresco poco oltre, all’ombra del boschetto che sorge sulle rive del fiume ora quasi asciutto, punteggiato di curiose rocce lisce e perfettamente ovali. Fuori stagione le smisurate aree di sosta sembrano insensate e lo stesso effetto fa il baracchino delle bibite abbandonato, che apre solo quando piove. La poca acqua attira però numerosi cammelli e una mucca particolarmente bavosa, che osserva con occhi supplici i turisti che fanno il pic-nic, forse sperando in questo modo di far loro pietà e di ottenere qualcosa di commestibile in cambio.
Il fiume che ha scavato questo wadi sfocia in mare accanto alle rovine di Khor Rori, forse le uniche che sono sfuggite alla furia ricostruttrice del sultano grazie alla fama sinistra del luogo, stregato per tradizione. Il sito è però presidiato da omini che cercano di dargli un aspetto dignitoso, ricostruendo muri qua e là, come se per loro fosse inaccettabile arrendersi dinanzi a quell’aspetto cadente. Fondata nel IV secolo a.C., era una cittadina fortificata che sorgeva accanto all’antico porto di Sumhuram in una regione famosa per la sua pregiata qualità di incenso. Essa è stata uno dei centri più importanti per le rotte commerciali tra il Mediterraneo e l’Arabia meridionale.
Le acque dolci si arrestano di fronte ad una lingua di sabbia candida dando vita ad una laguna gremita di trampolieri. Al di là solo l’oceano indiano, caldo ed invitante, che si infrange sulla spiaggia in onde lunghe e dolci.
Cerchiamo gli alberi di incenso (Botswelia sacra) in un luogo che ancor oggi dovrebbe ospitarne parecchi, ma i risultati sono piuttosto deludenti. Non è facile individuarli con certezza, spogli come sono. Sappiamo che sono simili alle acacie, alti due metri, con le foglie piccole. L’incenso è una resina che si ricava dall’incisione della corteccia tra aprile ed ottobre e ogni albero ne produce dai sei ai quindici chili l’anno. La raccolta avviene una volta alla settimana e la sua qualità dipende dalla zona in cui la pianta cresce. Oltre che per i riti religiosi viene utilizzato come medicamento. Si tratta comunque di piante selvatiche, perché l’incenso è considerato un dono di Allah e quindi gli alberi che lo producono non vengono venduti ma portati in dote dai mariti insieme al terreno sul quale crescono naturalmente.
Anche quando si lascia definitivamente Salalah puntando decisi a nord si ha la stessa impressione di desolazione, questa volta non confortati per chilometri da alcuna oasi verdeggiante. La strada asfaltata si trasforma ben presto in una pista che costeggia dapprima un’immensa discarica a cielo aperto -lì certo problemi di spazi angusti non ce ne sono- presso la quale banchettano parecchi cani e numerose aquile (Aquila nipalensis, l’aquila delle steppe), poi si arrampica su per una ripidissima pietraia polverosa. L’unico indizio che ci rassicura che non siamo finiti su Marte -a parte la spazzatura della discarica, s’intende- è la presenza di immensi piloni dell’alta tensione. Per il resto ci sono solo pietre, cespugli rinsecchiti e polvere a perdita d’occhio, l’immagine stessa dell’arsura. In realtà proprio ai confini col cielo si vedono mezzi meccanici in movimento che sollevano una nebbiolina bianca ed impalpabile. E’ difficile credere che qualcuno abbia deciso di allargare la comoda pista che già c’era trasformandola in una specie di autostrada e mangiando per questo tutta la montagna a cucchiaiate. Eppure così è ed i lavori, a detta di chi è stato qui soltanto due mesi fa, precedono assai spediti, non come in Italia.
Dopo tanta salita raggiungiamo il tetto del mondo a cinquecento metri di quota e ci fermiamo proprio nel punto più panoramico, dove sono state predisposte alcune strutture in muratura dotate di panche. Infatti in quel luogo sempre al sole gli omaniti si radunano, nella stagione dei monsoni, per osservare il mare di nubi ai loro piedi. Le montagne chiudono la regione di Dhofar, quella in cui sorge Salalah, e fermano il Karif, un forte vento da sud-ovest -il monsone, appunto- che porta le piogge tra giugno e settembre. Questo è il motivo per cui la zona a sud della catena montuosa ha una vegetazione rigogliosa nella seconda metà dell’anno e spiega anche la buffa convivenza tra cammelli e mucche, tanto da essersi meritata l’appellativo di Svizzera dell’Oman.
In febbraio le piogge sono solo un ricordo lontano, ma è facile immaginare quei monti tutti ricoperti di vegetazione, in inverno secca e riarsa. L’assenza assoluta di foglie però mette a nudo la vera struttura del terreno e ci regala la visione della mappa fittissima di tutte le piste disegnate dagli animali, una rete di tracce a maglie strette che descrive la pendenza naturale del terreno.
Oltre quel punto tutto cambia.
La pista corre tra monti e valli lunari; la roccia nuda e sincera non è contaminata dalla presenza di vegetali che ne celino la bellezza.
Wadi Uyun ci regala di primo acchito un’acacia ombrosa per il pranzo, sassi da spaccare con la stessa curiosità per il contenuto che si può avere solo per un uovo di Pasqua e piccole montagnette piramidali dalla superficie instabile sulle quali arrampicarsi. Solo in un secondo tempo ci rendiamo conto che il bello deve ancora venire, quando capitiamo di fronte a spettacolari concrezioni di gesso, figlie del carsismo; tale fenomeno in tempi lontanissimi ha eroso tutto l’erodibile lasciando soltanto queste enormi rocce striate, bianche e gialline, come unici avanzi di residui insolubili su cui l’acqua non è riuscita ad avere la meglio. Siamo infatti in un wadi e nei millenni l’acqua ha portato via tutto tranne questi depositi di gesso che si erano formati in una cavità del sedimento. Sembrano quasi costruzioni artificiali, tanto sono diverse dalla natura del luogo. Eppure solamente osservando da vicino la pietra, presi per mano da chi ne ha fatto materia di vita, possiamo leggerne la storia travagliata, fatta di spinte possenti e di lenti gocciolii, tutti scritti nell’aspetto stesso della parete.
Il successivo wadi Haylah ci offre invece lo spettacolo delle gazzelle salterine -che scappano agili e leggere non appena ci sentono arrivare-, un arco naturale nella roccia accanto al quale allestire il campo e infine la noia di un terreno piatto ed uguale, ormai privo di colline, che ci porta dritti fino a Wubar, la cui attrattiva principale sono le rovine di Shisr.
Un qualunque italiano che sia stato almeno una volta in Sicilia credo avrà qualche difficoltà a chiamare rovine quei muretti di sassi che potrebbero esser stati costruiti ieri, benché fior di cartelloni ipotizzino strutture improbabili della città del tempo che fu. Pare infatti che qui nella notte dei tempi sorgesse un villaggio che era un’importante punto di riferimento per le carovane; il cedimento del terreno lo distrusse parzialmente quattromila anni fa, quando sprofondò di una ventina di metri. Il secolo scorso, poi, venne abbandonato definitivamente. L’impressione più incisiva resta comunque il riverbero accecante del mezzogiorno e l’immagine di quelle pietre candide che delimitano un enorme sentiero polveroso nel nulla.
In fondo non dovremmo esserne tanto stupiti: quel luogo è l’anticamera del deserto.

Il campo con l’arco

In una piana sconfinata ed aspra, dove l’unica distrazione per l’occhio sono piccole gobbe di pietra, collinette di sassi franosi accumulati dal capriccio di una mano gigante, e, qua e là, alcune montagne più grosse, enormi sassi che si esibiscono nella loro fiera nudità, all’improvviso, davanti a noi, un arco.
Non si deve pensare ad una struttura elegante, ad una concrezione famosa.
No.
Semplicemente una roccia con un buco nel centro, affascinante nella sua semplicità.
Giovanni non rallenta, non cambia traiettoria. Si avvicina rapido e sicuro, anzi prende la rincorsa. A dire il vero si vedono delle tracce di pneumatici impresse nella polvere bianca, forse frutto di una sua precedente incursione -senza pioggia e senza vento le impronte sono molto durature.
Nessuno è realmente spaventato, prevale il brivido della ragazzata e la curiosità di scoprire se alla fine della salita, proprio quando saremo al centro della volta, ci sarà un precipizio che ci inghiottirà tutti. Un attimo e l’ascesa diventa discesa, lo stomaco che svolazza come se fossimo su un ottovolante.
Ancora non lo sappiamo ma siamo arrivati.
Quello è il posto in cui allestiremo il nostro primo campo, un pianoro infinito in cui ciascuno può decidere dove edificare la propria abitazione con vista esclusiva.
Stefano si esibisce in una dimostrazione pratica sull’argomento “Come si monta una tenda Kailas”, battendo ogni record mai visto in precedenza, come se il nostro tour operator possedesse un modello speciale di cui svelare tutti i trucchi, ma solo a pochi eletti. Tutti seguono con grande attenzione l’eccezionale performance, soprattutto perché l’improvvisato professorino promette un’ispezione durante le prove individuali con pene severe in caso di errori.
Ciascuno parte col suo fagotto verde sotto il braccio e tutti si disperdono per la piana. Non c’è un posto migliore di un altro, ma sicuramente ognuno ha un suo criterio che fa assumere al campo finito un aspetto bizzarro e assai poco regolare.
Mentre costruiamo la nostra casetta portatile dispiegando teli e allungando asticelle metalliche una musica si spande celestiale e sorprendente; rimbomba sui monticelli fino a raggiungerci, ci possiede. E’ indubbiamente Ennio Moricone e si tratta della colonna sonora di un vecchio film, “Il buono, il brutto e il cattivo”, che sembra esser stato girato in quell’esatto luogo.
Farsi trasportare dall’immaginazione è un attimo. Ci sembra di vedere pistoleri all’orizzonte avvicinarsi su cavalli veloci, preannunciati da una colonna di polvere, sigari macilenti tra le labbra, cappelli a larga tesa, aria da duri, baffi, pistole e cinturoni con proiettili.
In fondo ci sentiamo un po’ come loro mentre scaliamo quelle montagne di sassi pieni di fossili, facendo un passo avanti e due indietro, trascinati a valle da un ghiaione che ci tira a giù a picco, nella luce nitida e intensamente rossa del tramonto; ci sembra di aver qualcosa da spartire con quella vita eroica da film quando ci apprestiamo a dormire sulla nuda pietra, vegliati dal magico arco.
Solo che noi non abbiamo nemici da cui guardarci e che ci terranno svegli di notte, non un cavallo che nitrisce e sbuffa nel sonno.
Noi abbiamo il privilegio di una luna che splende in un silenzio incontaminato e un mestolo che percuoterà con insistenza un coperchio quando la nutella, al sorgere del sole, sarà finalmente in tavola.


Rub’ al-Khali – In risonanza con le dune

All’improvviso le dune all’orizzonte.
Nella foschia del mezzodì sono solo corrugamenti della piana infinita che stiamo percorrendo da ore, ma ci basta indovinarle da lontano per accenderci di entusiasmo. Siamo alle porte del deserto di Rub al Khali, -“la regione vuota”- che è il secondo deserto di sabbia più grande del mondo. Lungo mille chilometri e largo cinquecento, vanta dune alte più di trecento metri, vere e proprie colline mai uguali a se stesse.
Basta poco perché quei puntolini rossastri crescano e si facciano vicini, ci vengano incontro fino a circondarci completamente in un abbraccio confortevole. Una sosta grata si impone, una discesa in massa dalle autovetture per assaporare dal vivo quell’ambiente naturale nudo, spietato e meraviglioso -anche perché ci siamo già insabbiati.
A poca distanza poniamo il primo campo, alle estreme propaggini meridionali della zona desertica, che dà il meglio di sé anche se di fatto siamo piuttosto in periferia. Basta infatti percorrerne solo un paio di chilometri per trovarci nel paese del bengodi.
Pianori poco cedevoli attorniati dalle forme morbide di gigantesche dune rosse sono cosparsi di stranissimi sassi perfettamente rotondi, molto leggeri, che rivelano un’anima completamente inaspettata. Gli occhi di Silvana si mettono a brillare di gioia non appena li vede; un colpo di martello preciso di Giovanni che apre in un istante il primo sasso cavo a tiro me ne svela immediatamente il motivo. Geodi.
Siamo in presenza di una immensa miniera di geodi a cielo aperto. Vengo pervasa da una felicità improvvisa e immotivata; mi sembra di essermi trasformata nella protagonista di una favola di avventure proprio nel momento in cui, svoltando l’angolo, s’imbatte nel tesoro dei pirati. Non ci troviamo in un triste negozio del centro con un grasso signore che ci racconta panzane sulle meraviglie dei sassi in esposizione, nell’imbarazzo di sceglierci un soprammobile sotto il suo sguardo indagatore. Qui siamo liberi di volare di geode in geode, raccoglierle secondo l’estro del momento, soppesarle, immaginare che cosa racchiuderanno al loro interno, decidere se romperle sul posto e soddisfare subito la nostra curiosità oppure se fare incetta di quelle palline magiche e riempirne la valigia, per conservarle così, come ci sono apparse nel loro habitat naturale quando le abbiamo viste la prima volta, certi dei cristalli scintillanti che sicuramente celano.
E’ stupefacente pensare che quello scrigno naturale di pietre preziose si sia formato grazie ad una banale infiltrazione nella roccia madre d’acqua ricca di minerali disciolti. Facendosi strada nelle spaccature delle rocce sedimentarie calcaree, l’acqua ha disciolto parte dei minerali in essa esistenti e poi li ha ricristallizzati alterandoli.
Quando finiamo di depredare il deserto di quelle che ai nostri occhi appaiono come le gemme più preziose il tramonto è vicino e la duna che chiude da un lato il nostro campo ci ammicca invitante: da lassù la vista dell’ultimo raggio di sole dev’essere ancora più emozionante.
Saliamo in fila indiana lungo la cresta appuntita, una gamba di qua e una di là; il terreno è infido e cedevole, il piede sprofonda, arretra, arranca e la cima appare più inarrivabile di quella del Cervino. Si leva un vento teso e fastidioso, che aggroviglia i capelli, impastandoli di polvere fine di cui sarà impossibile liberarsi e sposta rasoterra la sabbia dalla quale i polpacci nudi vengono frustati. La duna vibra piano sotto ai nostri passi, come se facesse le fusa, come se apprezzasse tutti quei grattini che i nostri piedi, inconsapevolmente, le elargiscono.
Quando conquistiamo la vetta la fine del giorno è molto vicina e il mondo ha riconquistato il rilievo che il sole sfacciato del mezzodì aveva portato via, appiattendo i contorni delle cose.
A perdita d’occhio, intorno a noi, valli pianeggianti si alternano ad alte colline di sabbia rossa, tutte diverse le une dalle altre. Sono sinuose e soffici, le dune, plasmate dal vento in curve flessuose e sensuali, in creste taglienti come lame che all’alba e al tramonto diventano linee di demarcazione precise tra la luce e l’ombra. Osservato dall’alto il deserto sembra un mare di velluto modellato dalle mani di un gigante burlone, un panorama di cui non ci si sente mai sazi.
Eppure non si può restare lassù all’infinito -anche se in realtà nessuno desidera altro-, arroccati nel bel mezzo del nulla sulla nostra privilegiata postazione aerea con vista a trecentosessanta gradi, ad accarezzare con gesti rispettosi la sabbia tiepida del calore del giorno e a seguire passo passo la discesa del sole verso il profilo mosso delle dune all’orizzonte mentre una luna gigantesca sorge alle nostre spalle.
Bisogna pur che qualcuno rompa l’incantesimo, spezzi quell’equilibrio sereno che solo la cima di una duna regala e si butti per primo giù verso valle, verso quei puntolini lontani in fila lungo un corrugamento del terreno che saranno la nostra dimora notturna, verso i due fuoristrada paralleli che, uniti dai due tavoli bianchi, assomigliano tanto ad un catamarano.
Nessuno, da solo, ce la può fare; andarsene comporta troppo struggimento.
Tre ardimentosi si offrono di immolarsi, rinunciando all’estremo saluto all’astro di fuoco -la vanità fotografica opera veri e propri miracoli. Si guardano negli occhi, fanno partire un breve conto alla rovescia e si lanciano all’unisono con un gran balzo lungo la china molto ripida che frana a valle con loro, corpi che viaggiano velocissimi sul terreno instabile, pennacchi di sabbia intensamente rossi che s’innalzano verso il cielo e volano sospinti dal vento, generati dai passi lunghi e rapidi.
All’improvviso un suono sconosciuto, un rombo grave e sordo che cresce d’intensità quando la corsa si fa più concitata e che viene accompagnato da una vibrazione strana percepita chiaramente sulla pianta dei piedi anche attraverso le scarpe. E’ l’urlo della duna, che strepita sotto ai nostri passi irrispettosi, che mostra così il suo disappunto millenario. Ma noi non ci vogliamo fermare anzi siamo spronati da questo ad aumentare la nostra velocità vibrando insieme a lei, fino a diventare un tutt’uno.
Non ero mai entrata in risonanza con una duna.

Rub’ al-Khali - Insabbiarsi

Il vento può essere feroce, nel deserto, e la cosa può risultare molesta soprattutto quando questo capita di notte. La tenda sbatte e si agita, resistendo indomita alle raffiche ma producendo fruscii e sfregamenti improvvisi, una colonna sonora che non concilia un sonno di buona qualità.
Poi, improvviso com’è venuto, se ne va.
Il silenzio si fa assordante.
E’ bello a quel punto gettare un’occhiata al di là del telo che ci ripara per assorbire il chiaro di luna, sgattaiolare fuori dal proprio riparo senza far rumore e camminare a piedi nudi nella sabbia fredda in completa solitudine, commossi da un panorama tanto maestoso.
Quando la notte cede il posto ad un nuovo giorno Giovanni ci risveglia con un paio di colpi di gong -una posata che percuote una pentola è più che adeguata allo scopo: la stasi deve cedere il posto all’azione e all’avventura.
Il deserto di Rub Al Khali alterna candide piane gessose ad alte dune di sabbia rossa. Correre sulle piste di fondovalle è confortevole e sicuro, ma certamente meno stimolante che affrontare i colli cedevoli, dovendo individuare la pista migliore con l’attento studio della conformazione del terreno.
Quello è l’unico modo vero di vivere il deserto nella sua complessità, di assaporarne la vera essenza ed è anche, naturalmente quello più scomodo. Ogni pochi metri si è costretti a fermarsi; gli autisti corrono veloci in avanscoperta per valutare il passaggio migliore e noialtri abbiamo il privilegio di avere del tempo libero per stanare le lucertole, fotografare fiori gialli miracolosi o cespugli secchi dalle dita protese verso il cielo, restare ammaliati dallo spettacolo dei ripples nella luce radente del mattino.
Il deserto è ingannevole ed illusorio, anche quando l’esperienza di guida su quel tipo di terreno è ricca e l’analisi del territorio minuziosa. La sabbia cede sotto alle ruote quando meno ce lo si aspetta; quella che sembrava una valletta poco pendente e facilmente percorribile si rivela una specie di deposito di sabbie mobili dal quale sembra impossibile evadere; la duna più facile da salire può nascondere dal lato opposto una discesa così ripida da diventare pericolosa. E’ facile sottovalutare la velocità adeguata da tenere volta per volta, anche perché lo stile di guida è diverso a seconda delle condizioni.
Così può capitare che una dunetta dall’aspetto innocuo ed invitante intrappoli Giovanni sulla sua sommità, trasformando il fuoristrada in un dondolo per bambini appoggiato sulla pancia, con tutte e quattro le ruote che pescano nel vuoto. Questo è foriero di bestemmie imprigionate tra i denti dell’autista e richiede l’uso della robusta corda di traino dall’aspetto molto vissuto, tramite la quale Stefano trae d’impaccio il collega. Giovanni ci ritenta e affronta l’insidiosa duna con maggior decisione, planando dolcemente sul lato opposto.
Stefano segue a ruota; forte dell’esperienza del compare, accelera senza ritegno e, raggiunta la cresta, decolla, in una scenograficissima performance acclamata dall’entusiasmo di tutta la truppa.
La scena si ripete una mezz’ora più tardi, ma con una variante che dà un po’ di pepe alla giornata. La cresta della duna si è inghiottita il fuoristrada di Stefano e qualunque cosa lui faccia sembra solo peggiorare la situazione. La sabbia arriva fino alle portiere ed occupa tutto lo spazio disponibile sotto la pancia dell’autovettura. Azionare il motore per cercare di muoversi serve solo ad alzare pennacchi di sabbia esteticamente gradevoli e a scavarsi al contempo la fossa in maniera più definitiva.
Giovanni, che ha già scollinato, risale per un tratto in retromarcia ed unisce i due automezzi con la corda di traino. I due autisti fanno segno con le dita, contano fino a tre. Azione!
Il risultato è che a quel punto i fuoristrada insabbiati sono due. A niente valgono le piastre da sabbia, a nulla gli sforzi di tutti. Anche la corda è rimasta impigliata, ben tesa tra i due paraurti. Impossibile rimuoverla. Vista da fuori la situazione sembra senza via d’uscita.
Ma si sa: quando si tocca il fondo non resta che scavare. E così facciamo, tutti quanti carponi sul terreno che si sta arroventando al sole. A mani nude spostiamo montagne di sabbia, poca per volta, per liberare le ruote, per ritrovare le piastre, che dopo l’ultimo tentativo sono rimaste sepolte chissà dove.
Sabbia che si infila nelle scarpe, nei vestiti, nei capelli e negli occhi.
Sabbia che, sospinta dal vento, vola felice rasoterra, da un lato della duna all’altro, passando attraverso di noi che siamo proprio lì, chini nello sforzo, sferzandoci la pelle ed accecandoci. Allora ci rialziamo e al segnale convenuto iniziamo all’unisono a spingere il fuoristrada, che ha il sedere sospeso così in alto da farci pensare che potrebbe sbilanciarsi dalla nostra parte e fare di noi polpette.
La storia si ripete innumerevoli volte, sempre con configurazioni diverse, finché la duna si decide a restituirci i nostri mezzi di locomozione.
Il lento viaggio verso il fondovalle è costellato di altre soste del genere, meno entusiasmanti come coreografia; si tratta perlopiù di banali insabbiamenti in cui si scende e si spinge l’automezzo con tutte le forze che si hanno ancora in corpo fino a sentire le ruote che finalmente fanno presa sul terreno, riescono a riportarsi a galla e liberano l’autovettura che, preso l’avvio, si ferma mezzo chilometro più in là, tanto per essere sicuri di non replicare pochi metri più avanti.
Ai poveri pellegrini che hanno contribuito all’impresa non resta che raggiungere l’autista a piedi, arrancando nella sabbia in cui si affonda fino alla caviglia, ormai fiaccati dal sole allo zenit.
Certo avremmo potuto essere in quel momento ai Caraibi in un hotel a dodici stelle, spaparanzati, serviti e riveriti, probabilmente un filo annoiati per un’inerzia così sfacciata -la noia dell’estate in spiaggia. Sicuramente gran parte dell’umanità pensa questo di quel manipolo di persone che si trascina faticosamente lungo la salita della centesima duna del mattino.
Ma chi non ha mai provato a vivere davvero il deserto in prima persona, a sentirsi scricchiolare la sabbia tra i denti, a vincere le piccole battaglie quotidiane contro la forza possente della natura, traendo al contempo un profondo godimento dal rapporto diretto con essa, non schermato da alcuna forma di comodità artificiale, non può dire di essere una persona completa.
E, soprattutto, non sa che cosa si perde!

Rub’ al-Khali - Interludio

La cavalcata sulle dune, per quanto affascinante, prima o poi finisce, sostituita da una corsa veloce lungo una pista minimalista, bianca nel bianco del fondovalle. Non è difficile costruire strade nel deserto. Basta un grader che raspi un po’ la parte pianeggiante del terreno, quella meno cedevole, e sembra di aver a disposizione addirittura un’autostrada, con tanto di assurdi cartelli che mettono in guardia da terribili curve pericolose, che invitano a dare la precedenza (a chi???) o che vietano il sorpasso. Il tutto soltanto raschiando il terreno e facendogli cambiare un po’ il colore. Eppure si arriva a volare, con un’ingannevole sensazione di sicurezza data dagli ampi spazi e dall’assoluta e totale assenza di altri mezzi o persone. Si corre così il rischio di sottovalutare ciò che chi è passato prima di noi ha lasciato dietro di sé, che magari si materializza all’improvviso nel bel mezzo della via sotto forma di un residuo metallico.
La ruota posteriore destra letteralmente si squarcia, aprendosi in due.
Il motore viene spento, tutti scendono dall’autovettura.
Siamo soli nel silenzio; la polvere del fuoristrada che ci precede è solo un fumetto lontano.
Nessuno dei membri dell’equipaggio sembra particolarmente scosso dall’accaduto. Anzi, sembra che l’incidente venga vissuto come una piacevole occasione per dedicarsi alle proprie attività preferite.
Mentre i due rappresentanti giovani del sesso maschile si adoperano con un’efficienza degna della formula uno nella sostituzione della ruota, estraendo i vari attrezzi necessari dagli anfratti più impensati e rotolandosi per terra nella polvere per utilizzarli, osservo con estremo divertimento le occupazioni degli altri due. Giorgio cerca un bel sasso comodo, di quelli candidi che delimitano il bordo della via, si siede e minuziosamente vuota le scarpe e le calze da una vera e propria cascata di sabbia, guardandosi attorno sereno per ammirare lo splendido panorama.
Silvana invece cammina avanti e indietro senza tregua, proprio accanto a noi, trascinandosi dietro qualcosa mediante un cordino, come un bambino con una paperetta di plastica dotata di ruote.
Mi avvicino curiosa e la osservo. Si tratta di un pacchetto bianco che contiene una potente calamita.
Solo allora scopro che Silvana coltiva la segreta speranza di trovare un meteorite gigante e, non essendoci ancora riuscita, si accontenta di isolare dal terreno tutto il materiale magnetico per poi poterselo ammirare con attenzione al microscopio una volta tornata in patria, sperando di individuare così dei frammenti di materiale cosmico provenienti dalla disintegrazione dei meteoriti che penetrano nell’atmosfera. E a posteriori devo dire che il risultato estetico della raccolta, analizzata con opportuni strumenti, è piuttosto stupefacente. I due maschietti emergono ben presto vittoriosi dalle viscere del fuoristrada coperti di polvere che è andata ad impastarsi al sudore, dando origine ad una fanghiglia biancastra che però avrà breve vita.
Giovanni infatti ci ha promesso una doccia calda poco avanti qui, in mezzo al deserto.
E doccia sarà; Giovanni non mente mai.
Alla nostra sinistra, all’improvviso ci appare un bel prato, nel bel mezzo del quale spunta un gigantesco rubinetto rosso. Giovanni lo impugna saldamente e lo apre. Un potentissimo getto di acqua calda e sulfurea attraversa il deserto e nutre l’erba. In un istante siamo tutti in costume, a contenderci il piacere dell’acqua sulla pelle. Fa male, quel getto; è potente e tende a scaraventarci per terra, ma noi resistiamo indomiti, giocando come bambini con gli arcobaleni che fluttuano intorno a noi, una catena di dune rosse ad incorniciare i fotogrammi di quell’insolita attività, il vento per asciugarci quando consumeremo il nostro pic-nic ancora grondanti di grosse gocce.
Avevo creduto di aver fatto il bagno più strano della mia vita in Islanda, acque termali all’aperto e costume da bagno quando la temperatura non superava di molto i sei gradi. Ma quanto a stramberia il bagno nel deserto lo batte di parecchie misure!

Rub’ al-Khali – La duna col ghiacciaio

Correre su un terreno candido circondati da monti di sabbia intensamente rossi è un'esperienza poco usuale e molto appagante per chi apprezza i contrasti cromatici violenti e la meraviglia si rinnova valletta dopo valletta, ad ogni svolta che rivela un nuovo deposito salino gessoso protetto dalla sua corona di dune. E’ un paesaggio sempre diverso che non smette di stupire e per questo siamo pronti alla continua sorpresa.
O almeno lo supponevamo.
In realtà non riusciamo a credere ai nostri occhi quando ci fermiamo di fronte ad un'enorme duna che sembra essere attraversata da un ghiacciaio millenario e che ai suoi piedi ospita nientepopodimeno che una copia in miniatura del Perito Moreno.
Il sole ancora alto abbaglia, cancella i contorni del panorama e fiacca le energie. Di allestire il campo in quelle condizioni nessuno ha voglia e neppure di scarpinare fino a quella duna lontanissima; così, pigramente, ci si adegua ai ritmi di chi vive al sud del mondo, seduti all'ombra dei fuoristrada a tracannare uno dopo l'altro tiepidi boccioni d'acqua, sgranocchiando variopinti M&M's apparsi miracolosamente dalle riserve segrete di qualcuno.
Silvana però manca all'appello, puntolino colorato che sparisce presto all'orizzonte.
Il suo sorriso trionfante e il trofeo che porta faticosamente tra le mani però hanno il potere di smuovere la truppa dagli ozi in cui si trova a giacere. Una gigantesca e perfetta rosa del deserto viene appoggiata sulla sabbia dinanzi a noi: "Ce n'è una valletta piena!" esclama con entusiasmo.
La qual cosa scatena un’immediata caccia all'oro, che fa passare in secondo piano anche il sole cocente.
Le concrezioni del fondovalle hanno in sé qualcosa di ammaliante. Se già suscitano sbalordimento quegli enormi blocchi di gesso candidi che richiamano alla mente, seppur in piccolo, il fronte del famoso ghiacciaio argentino -uno zoccolo duro che sembra non aver niente in comune con la sofficità della sabbia che lo circonda-, le rose del deserto fanno letteralmente impazzire di gioia chiunque.
Non assomigliano a quei tre petali striminziti che di solito si trovano in vendita alle nostre latitudini, ma sono concrezioni gigantesche che, prese per intero (posto di riuscire a staccarle), non entrerebbero in nessuna delle nostre valigie. Eppure basta sfiorarle che si smembrano negli elementi costituenti, fragili fiorellini di pietra di cui ci riempiamo le mani, speranzosi di riuscire a portarne qualcuno integro in patria, affranti per dover abbandonare nel luogo d'origine i pezzi più scenografici.
E’ incredibile come la natura riesca a modellare forme diverse l’una accanto all’altra a partire dagli stessi elementi costituenti: il finto ghiacciaio, le rose del deserto e poco oltre le sabbie fossili, rocce friabilissime nelle quali hanno scavato la tana animali che non sempre riusciamo ad identificare. Però nel nostro razzolare curioso riusciamo a trovare una piccola collezione di corna di gazzella, che qualcuno raccoglie esibendo ogni pezzo come un vero trofeo.
Solo quando il buio è vicino ci decidiamo ad allestire il campo. E’ una serata caldissima in cui è bello assaporare la sabbia tiepida sotto ai piedi nudi. Il sole si nasconde dietro la duna più alta infuocando l’aria di una miriade di rossi aranciati che rendono ancora più carico il colore del deserto.
Una luna immensa si leva dalla parte opposta, candida e placida. Le manca solo una fettina minuscola per essere piena e se si affronta la breve salita alle spalle delle tende sembra quasi di riuscire a tenerla in mano tutta intera.
Lei sarà il nostro faro nella notte, la guida dei passi di chi si avventura lontano dal campo oltre l’ora del coprifuoco e scopre, al di là del corrugamento del terreno che impediva la vista, un lago d’argento sconfinato che brilla di luce lattea. E solo grazie alla luna noteremo il deserto pullulare di miriadi di diamantini che costellano il nostro cammino, minuscoli cristalli di quarzo che di giorno si celano nel riverbero sfacciato del sole per pavoneggiarsi di notte agli occhi di chi li sa guardare ed accarezza la sabbia per decine di minuti, alla scoperta di preziosissimi tesori impercettibili.

Dal deserto all’oceano

Osservare le dune imponenti che, chilometro dopo chilometro, cedono sempre maggiore spazio alle piane gessose è un dispiacere sottile, una specie di singulto represso che opprime il cuore e l’anima. Il paesaggio di monti e valli dalle forti tinte contrastanti si trasforma in uno più dolce ed insulso, dove sulle morbide colline dai contorni tondeggianti fanno la loro prima apparizione alcuni alberi. Inizialmente solitari, si organizzano in boschetti radi e spennati poco più in là e sembrano incarnare la sofferenza stessa della lotta quotidiana per la sopravvivenza. Poi basta.
Le dune si spiattellano, gli alberi spariscono e resta solo una superficie infinita di polvere abbacinante nella quale si ha la sensazione di poter restare imprigionati per sempre, in uno sconcertante nulla perfettamente privo di personalità.
Proprio lì, ai confini del mondo, c’è una postazione militare per il controllo dei passaporti, cosa non del tutto inspiegabile considerando che il confine con l’Arabia è a meno di dieci chilometri.
Una sbarra abbassata attraversa la pista e ci impedisce il passaggio. Avremmo ben potuto aggirare l’ostacolo -in fondo quella recinzione è lì in mezzo al nulla- ma abbiamo il sospetto che, vedendo da lontanissimo la polvere sollevata dai fuoristrada, i militari ci avrebbero inseguito magari sparando qualche colpo tanto per gradire. Così ci fermiamo ubbidienti.
Ai due uomini in divisa non pare vero di avere una distrazione in tanta nullafacenza, così non si accontentano dei documenti dei guidatori e delle automobili, ma vogliono anche tutti gli altri.
Però qualcosa continua a non convincerli, quindi si attaccano al telefono e intrattengono un’infinita conversazione che termina davanti ai nostri occhi in una raffica di domande rivolte a Giovanni, naturalmente in arabo stretto.
Giovanni non parla l’arabo, anche se sa salutare con cortesia in lingua, così gli risponde in inglese.
L’uomo insiste, in maniera sempre più concitata -un dialogo tra sordi sarebbe stato più efficace.
Poi però ci lascia andare da un momento all’altro. Non sapremo mai se questo è avvenuto perché la persona al telefono con lui gli ha dato questo ordine o perché anche le distrazioni che sembravano interessanti -nella fattispecie la vessazione del turista- alla fine stancano.
Quell’evento sancisce il rientro nella civiltà e a poca distanza incontriamo piccoli centri abitati. A Miqshin cerchiamo il gasolio e un ristorante; Giovanni si esibisce nei suoi ormai famosi ingressi contromano dal benzinaio e prova ancora una volta la teoria secondo la quale basta che ci avviciniamo alla pompa assolutamente deserta perché su di essa convergano tutti i mezzi motorizzati del paese, attirati dalla curiosità -dovremmo farci pagare per questo! Per il ristorante abbiamo qualche difficoltà in più. Il paese sorge su una pianura di polvere bianca fine come borotalco ed è costituito da una schiera di casette candide tutte identiche, nuovissime, apparentemente disabitate, disposte in matrici ordinate e addossate le une alle altre. In giro non ci sono forme di vita evoluta, tranne un bambino grassoccio che pensa un po’ prima di indicarci che quello che cerchiamo si trova poco fuori dall’abitato, in un edificio alto. Quest’ultimo si rivela essere una costruzione mono piano con una tettoia dal tetto di frasche isolata nel pianoro, accecante nella luce violenta. Mangiamo all’aperto preferendo il grande tavolo basso sotto la tettoia alla sala in penombra dal pavimento lucido dove tre autoctoni guardano la televisione con aria indolente.
Ad Haima invece ci fermiamo dal gommista. Si tratta di una cittadina molto più vivace e moderna della precedente, con negozi dalle insegne coloratissime e perfino gente per le strade, ma tutti rigorosamente maschi. Tunica immacolata, cappellino omanita, in gruppi o da soli, sorridenti e ben disposti verso lo straniero. Donne nessuna e gli sguardi che rivolgono alle turiste in pantaloni corti la dicono lunga.
Il gommista è un omino efficientissimo che ci restituisce il conforto di una ruota di scorta integra, casomai servisse ancora. E’ ora di abbandonare i centri abitati, tutta questa affascinante umanità concentrata della quale siamo già stanchi. Ci aspettano chilometri e chilometri di noiosissima strada asfaltata in via di raddoppiamento -beato chi non ha problemi di spazio!- e poi saremo soli con l’oceano.

L’avventura della variante

Seguire un programma di viaggio passo passo è troppo scontato e si rischia di scivolare nella noia per eccesso di prevedibilità. Per questo motivo la proposta di una variante tutta da esplorare insieme viene accolta all’unanimità. Dei motociclisti italiani hanno infatti parlato di spiagge candide attraversate da colate di lava nera ed è con scetticismo ed estrema curiosità che ci buttiamo alla ricerca di una simile stranezza geologica.
E’ pomeriggio inoltrato quando abbandoniamo la certezza di una strada asfaltata e ci inventiamo una via che speriamo ci possa condurre fino in riva al mare dove sistemarci per la notte.
Come prima cosa finiamo sulle piste di un aeroporto in costruzione, dove alcuni signori sorridenti ci spiegano che non possiamo stare. Tornati sui nostri passi ci rendiamo conto che il terreno polveroso è cosparso da una ragnatela di tracce che si intrecciano e si snodano come serpenti ubriachi; sembra che chi le ha disegnate per la prima volta abbia mandato avanti un maiale e ne abbia seguito la traiettoria fantasiosa.
Non ci resta che andare a sentimento, un po’ seguendo la bussola, un po’ indovinando la morfologia del suolo. Nel crepuscolo sorge di fronte a noi una luna gigantesca, finalmente piena. Sembra di galleggiare nella luce violetta che tutto avvolge, di far parte di un quadro dipinto ad acquarello in cui ci piacerebbe poter esser raffigurati immobili per assaporare l’unicità del momento. Ma la notte incalza ed è proprio la luna che ci indica il passaggio segreto per giungere alla meta, l’esatto punto in cui la pianura si fende in uno spettacolare canyon e ci apre la via al mare. La pista si inabissa, si contorce in qualche curva per scendere agevolmente fino ai piedi della falesia precipitosa, poi l’orizzonte si apre nuovamente.
Sulla sinistra ci sono delle luci, che sembrano provenire da un villaggio fantasma (Shuwayr), ma il buio non ci consente di capire molto di più; sulla destra invece c’è un lungo muro bianco, che nel nostro immaginario è il perimetro di un futuro enorme villaggio turistico. In fondo stanno anche costruendo l’aeroporto, no?
Noi scegliamo il centro, il bordo della piana rocciosa prima che diventi spiaggia, e mentre una tempesta di vento ci fa rimpiangere il caldo intenso del deserto, montiamo le tende, cercando di non farcele strappare di mano.
Tra un piatto di polenta con formaggio -tipico cibo da consumare in riva al mare- e una tisana alla menta vediamo che Giovanni e Stefano si incamminano verso l’oceano portando in mano uno scolapasta ed un coperchio. Forse vogliono solo lavare i piatti, ma la faccenda può aver risvolti interessanti, così decido di seguirli e mi ritrovo, mio malgrado coinvolta in una battuta di caccia al granchio in notturna, pile da testa spianate e agguati tra le rocce del bagnasciuga, col rischio non indifferente di finire a mollo. In realtà ci ricongiungiamo agli altri indenni e con una preda, un grosso granchio rosso che non sembra apprezzare molto la prigionia e cerca di evadere non appena scostiamo il coperchio. Giovanni si rammarica molto di averlo scoperto solo dopo aver cenato; al solo pensiero della pasta con granchi freschi gli viene l’acquolina in bocca. Un esemplare solo però non serve a niente, soprattutto dopo cena, e lo riportiamo là dove lo avevamo preso.
La luce del mattino ci regala innumerevoli dettagli che la notte ci aveva tenuto nascosti, come la meravigliosa falesia di gesso candido che chiude la baia, i coralli fossili, l’oceano gravido di alghe e una quantità infinita di spazzatura portata dal mare -e non solo.
Scopriamo anche che oltre il muro candido non si celano le fondamenta di un principesco villaggio vacanze ma un cimitero minimalista dove non esistono tombe ma corpi appoggiati sulla nuda terra e coperti di sassi, contrassegnati soltanto da un anonima pietra, magari di corallo. Quel muro di confine potrebbe costituire un valido riparo per il campo nelle notti di burrasca.
Nel paese fantasma vivono i pescatori; è una estesa raccolta di baracche macilente affiancate dalle solite casette a schiera nuovissime, probabile elargizione del sultano alle quali i beneficiari sembrano preferire i tuguri luridi. Sulla riva sono spiaggiate numerose barchette da pesca bianche e azzurre, ma in giro sembra non esserci davvero nessuno.
Risaliamo il canyon che ci aveva stregati al tramonto per cercare la via che ci porterà alle fantomatiche colate laviche. E’ tutta una questione di aggiustamenti successivi nell’intrico di piste che vanno ovunque. Per fortuna che i GPS sono già stati inventati.
Arrivando da sud, Madrakah ci appare di primo acchito come un luogo insulso, ma basta che ci avviciniamo al mare per cambiare completamente idea.
Una spiaggia bianchissima ed immensa si perde all’orizzonte, spazzata da un mare vivace ed intensamente verdeazzurro ed abbellita dalla presenza di centinaia di gabbiani che garriscono levandosi liberi in volo al nostro passaggio. Un vento gagliardo che spira verso il mare spettina le creste delle onde, che sembra portino un velo da sposa sulla sommità.
Eppure, per quanto bella, non è la spiaggia che cercavamo e non intendiamo certo desistere. Proviamo quindi ad aggirare il promontorio e spostarci sul lato est, seguendo la strada asfaltata ed eccola lì, la colata di basalto, una valle di pietra variopinta con guglie e pinnacoli, uno scorcio di terreno marziano. Il colore predominante è il grigio in varie sfumature che arrivano fino al nero, ma ci sono anche pennellate di rosso cupo e perfino una montagna che sembra vantare il privilegio di una spruzzata di neve.
Incantati scendiamo fino al mare e forse non siamo pronti ad uno spettacolo simile.
Due baie di dimensioni medio-grandi ci deliziano la vista. La sabbia candida è punteggiata qua e là da rocce nero-pece -spunto estetico assai piacevole- e bagnata dall’oceano spumeggiante che ha tinte tropicali.
Una scolaresca gioca sul bagnasciuga. Sono bambini delle elementari, tutti con la solita tunica immacolata e il cappellino omanita. Il maestro ne veglia le attività, due donne velate in nero lo aiutano nell’impresa. Sono tutti molto amichevoli nei rapporti con noi, anche le due signore che, allontanatesi per non esser riprese dai nostri obiettivi, ci fotografano da lontano col loro smartphone bianco. Ci colpisce l’eleganza del portamento dei maschi, grandi e piccoli, forse conferita dall’abito; è piacevole quel senso di ordine e pulizia che questo popolo comunica sempre, anche attraverso quei bambini che miracolosamente non si macchiano mai.
Per godere a nostra volta dalla spiaggia ci allontaniamo dal centro abitato; abbiamo a che fare con musulmani e non è certo opportuno mostrare le nostre nudità coperti soltanto da un bikini minimalista. L’acqua è fredda ma bellissima, la spiaggia vista dal mare ha dei riflessi rosati stupefacenti.
Chi non ascolta il richiamo del mare e aspetta gli altri all’asciutto vede avvicinarsi da lontano due uomini. Cordiali e sorridenti, fingono di ammirare il panorama, ma alla fine fotografano le turiste poco vestite che sguazzano ignare, con un luccichio di desiderio negli occhi.
Uno di loro si prepara alla pesca subacquea con costume da bagno, pinne e fucile: ciò che resta nudo al contatto con l’acqua sono solo le caviglie!
E’ ora di chiudere il capitolo della variante, con difficoltà e nostalgia: strapparci a quel paradiso è un’impresa non da poco.

...continua...